Acqua, farina, sale e poco altro: la magia della torta al testo è tutta qui, nella semplicità degli ingredienti e nella cottura a diretto contatto con il fuoco, tra la pietra e i carboni ardenti. Al giorno d’oggi il testo è un disco di ghisa o di cemento, che viene posto a scaldare e sopra cui viene adagiato l’impasto; un tempo veniva scolpito a mano e lasciato ad arroventare nel camino.
La ricetta originale non prevedeva lievito, poiché doveva servire in sostituzione del pane e le bocche da saziare erano sempre numerose; ma si può adoperarne un pizzico o sostituirlo con del bicarbonato, aggiungere un filo d’olio o persino un uovo, a seconda delle varie tradizioni. Anche i nomi possono essere tanti: pizza al testo o pizza sotto il fuoco, crescia, ciaccia, ma la sostanza non cambia e il sapore nemmeno.
Una volta cotta, ancora calda e fumante, è pronta per essere farcita con una delle tante delizie della nostra terra – salumi, erba cotta, salsiccia, formaggio – e magari gustata accanto al fuoco, con un bicchiere di buon vino.
Non fate l’errore di scambiarli per fettuccine, e men che meno per spaghetti: gli strangozzi sono un’altra cosa, ruvidi e spartani come le mani che per secoli li hanno preparati, fatti d’acqua e farina (e niente uova!) e dalla tipica forma a sezione rettangolare; proprio come le stringhe di cuoio usate per allacciare le scarpe, da cui prendono il nome.
Si dice che fosse proprio con quelle stringhe che i ribelli anticlericali tendevano agguati ai prelati dello Stato Pontificio, usandole come una rudimentale arma da stringere attorno al collo, e che sia stato questo a generare la confusione di alcuni tra gli strangozzi e gli strozzapreti (che invece hanno tutt’altra forma); e si narra anche che il Barbarossa, sceso in Umbria con l’intenzione di saccheggiarne le terre, abbia cambiato idea dopo che al castello di Pissignano gli fu offerto un sontuoso piatto di strangozzi al tartufo, tanto buoni da farlo rinunciare ai suoi bellicosi propositi.
Anche qui le varianti del nome si sprecano, da stringozzi o strengozzi nei comuni del perugino a ciriole o umbricelli nella valle di Terni. Li si può gustare con il tipico sugo piccante di pomodoro, con il celebre tartufo, con panna e salsiccia secondo la tradizione di Norcia e in mille altri modi ancora: nelle trattorie umbre ogni cuoco ha la sua ricetta, e tutte sono deliziose. Fatevi consigliare quella che più si adatta al vostro gusto.
Nei mesi d’autunno e d’inverno c’è un piatto che non manca mai sulle tavole di Todi: in ogni camino la si vede rosolare sullo spiedo, spennellata da mani sapienti con un rametto di rosmarino, e gocciolare nella leccarda dove pian piano si insaporisce la salsa che la rende unica.
E’ la palomba alla ghiotta, specialità regina del comprensorio tuderte. La sua è una storia antica, legata alla tradizione della caccia al colombaccio (columba palumbus è il nome scientifico) che da queste parti somiglia quasi a un rituale; lo sanno bene nel borgo di Cecanibbi, dove ha sede un’associazione venatoria che custodisce nei propri archivi documenti vecchi di secoli, e dove ogni anno si tiene una sagra che omaggia questa prelibatezza.
Dicono gli intenditori che sulla ricetta della ghiotta, l’intingolo che accompagna la carne e che proprio da essa viene ulteriormente insaporito, possono consumarsi dispute all’ultimo sangue: ma olio e vino, pepe e aglio, salvia e rosmarino sono gli ingredienti di base su cui nessuno discute. Tutto il resto, come sempre, è lasciato alle usanze di ogni famiglia e alle ricette tramandate da una generazione alla successiva; e quale che sia la variante, di certo non renderà la palomba meno buona.
A Gubbio è il piatto della domenica, del pranzo di Natale o delle tavolate imbandite che riuniscono assieme tutta la famiglia; e sebbene sia considerato un piatto povero, proveniente com’è dalla tradizione contadina, in realtà è ricchissimo di gusto e sostanza.
Non va confuso con il frico, piatto friulano a base di patate e formaggio, e nemmeno con il fricò, padellata di verdure che ha una sua variante praticamente in ogni regione. Il friccò all’eugubina è uno spezzatino di carne di pollo, cotto in casseruola e arricchito con ogni sorta di aromi a seconda delle preferenze: vino, un goccio di aceto, aglio e rosmarino, guanciale o filetti di acciughe. Alcuni ne preparano una versione con carni miste, unendo al pollo anche coniglio ed agnello.
Immancabile in quasi ogni ricetta è il pomodoro che condisce lo spezzatino (la variante bianca è meno diffusa), aggiunto in un secondo momento dopo aver fatto rosolare la carne: il sugo che viene a crearsi caratterizza il piatto e gli conferisce morbidezza e sapidità. Non fatevi scrupoli a raccoglierlo tutto e concedervi un’abbondante scarpetta – magari con una fetta di crescia, come non mancherà di raccomandarvi ogni eugubino che si rispetti.
Rossa e bianca come lo stemma di Perugia, e guarnita di confetti colorati come i suoi rioni: la ciaramicola non è solo un dolce o un simbolo delle feste pasquali, ma un omaggio al capoluogo umbro e alla sua storia.
Nella sua versione originale è una vera e propria rappresentazione in miniatura della città: una soffice ciambella tutta intorno, una croce di pasta lievita a riempire la cavità, cinque sfere lungo il bordo e una in centro. Ecco i cinque rioni, ecco le vie che si incrociano e conducono fino a piazza IV Novembre, ed ecco la Fontana Maggiore che vi svetta nel mezzo.
Nella ricetta più recente si trova spesso la sola ciambella, ma i colori sono ancora gli stessi: il rosso della morbida pasta lavorata con alchermes, che conferisce al dolce il suo sapore e il suo profumo, il bianco della glassa meringata che la ricopre e il verde, giallo e blu dei confetti zuccherini. La sua fama è tale che ormai non è più necessario attendere la Pasqua per assaggiarla: in ogni pasticceria di Perugia potrete gustarne una fetta.
