Vi si arriva per una strada impervia, sterrata, che sembra non finire mai: ma una volta giunti, lo spettacolo è impagabile. Nel piccolo borgo di Montegiove, arroccato su una collina e immerso nel verde della valle ternana, si trova un luogo difficile da descrivere – e altrettanto difficile da dimenticare.
E’ qui che secondo le cronache San Francesco eresse nel 1218 una capanna fatta di fango e di scarza (o scarsa), una pianta palustre che cresceva nelle vicinanze, ed è col nome di Scarzuola che il posto fu conosciuto da quel momento in poi. Per celebrare il passaggio del santo vennero fatti costruire una chiesa e un convento, custoditi dai Frati Minori per quasi sette secoli.
Occorre aspettare il 1957, però, per cominciare ad intravedere la Scarzuola per come la conosciamo oggi. E’ in quell’anno che l’intera proprietà viene acquistata da Tomaso Buzzi, celebre architetto milanese, che nel corso dei due decenni successivi la trasforma nella propria opera simbolo: alle spalle del convento inizia la costruzione di un complesso architettonico che incarna la sua visione di città ideale.
Buzzi la definisce “un’antologia in pietra”: gradinate e pergolati a spirale, edifici di ispirazione greca e romana, anfiteatri e palchi che rimandano gli uni agli altri come in un gioco di specchi, creando un’enorme e surreale scenografia. E ancora mostri, statue enormi, architetture labirintiche e apparentemente prive di senso: tutto sembra immerso nel caos, e proprio in questo sta il suo inimitabile fascino.
Chi è stato alla Scarzuola sostiene che non sia solo un luogo da visitare, ma un’esperienza che apre la mente, un viaggio tra i sentieri e nei meandri dell’anima. Non resta che scoprire se sia la verità.
La storia di Rasiglia è una storia fatta d’acqua e di pietra: l’acqua delle sorgenti che sgorgano tutte intorno al paese, e la pietra che da quell’acqua, nel corso di secoli, è stata erosa e lavorata fino a disegnare il paese stesso.
Dista appena una ventina di chilometri da Foligno, e si raggiunge imboccando la strada che conduce nell’Alta Valnerina. Se si ha la fortuna di visitarla quando è poco affollata, il suono che per primo colpisce l’orecchio è quello gorgogliante dei ruscelli e delle piccole cascate disseminate qua e là; e l’immagine che riempie gli occhi è quella delle case punteggiate di verde che si specchiano nelle pozze e nei laghetti. Un panorama fiabesco che le è valso il soprannome di “piccola Venezia”.
Tra le sorgenti, la più grande e importante è quella di Capovena: nasce a monte di Rasiglia, e si divide nei mille corsi d’acqua che percorrono il borgo per poi riconfluire tutti assieme nella Peschiera, la grande vasca collegata al fiume Menotre. Quella di Alzabove, fuori dal paese, alimenta con la sua portata un acquedotto di notevoli dimensioni; e da quella di Venarella si dice sgorghi un’acqua particolare dalle benefiche proprietà.
Sull’acqua Rasiglia ha fondato la propria identità, e ha saputo sfruttarla per creare lavoro e benessere per chi vi abitava: nel corso dei secoli (le origini del paese risalgono circa al 1200) è divenuta celebre sopratutto per la lavorazione del grano, e per quella di lana e stoffe. Lasciatevi condurre in visita ai vecchi mulini, alle gualchiere, ai macchinari alimentati dalla forza dei ruscelli, e ascoltate l’acqua e la pietra raccontare le loro storie.
Qualcuno potrebbe obiettare che definirlo “il più piccolo del mondo” sia un’esagerazione, e che altri potrebbero insidiargli questo primato: ma il Teatro della Concordia di Monte Castello di Vibio, grazioso comune del perugino, è il più piccolo fra i grandi teatri all’italiana, dei quali riprende perfettamente la struttura. Un vero gioiello architettonico in miniatura, che non ha nulla da invidiare ai suoi fratelli maggiori.
Costruito nell’epoca napoleonica, venne intitolato alla concordia in omaggio agli ideali della non lontana Rivoluzione Francese, e all’unità tra i popoli che si stava tentando di ricostruire in Europa. Furono nove famiglie tra le più benestanti del luogo a volere che fosse edificato, e lo pensarono così piccolo perchè fosse “a misura del suo paese”
Il palco in legno, la pianta a campana, il plafone a camorcanna: i tre elementi che il maestro Goldoni pretendeva in ogni teatro sono tutti presenti. Novantanove sono i posti totali, trentasette in platea e i restanti sessantadue disseminati nei palchetti che la sovrastano; e quando il sipario è ancora chiuso si possono ammirare tutti intorno i suggestivi affreschi realizzati da Cesare e Luigi Agretti, pittori di origine spezzina attivi a Perugia tra l’800 e il 900.
All’ingresso del teatro, un iscrizione posta su un leggio accoglie i visitatori: “La civiltà non si misura a metri quadri e cubatura”. E’ il monito che le nove famiglie hanno lasciato alle generazioni a venire – e una volta entrati, non si può che dar loro ragione.
